Ho allenato in due discipline che più diverse non si potrebbero immaginare: la pallavolo, sport di squadra per eccellenza, e il tiro con l’arco, percepito come uno degli sport più individuali che esistano. L’ho fatto senza essere stato né un bravo pallavolista né un arciere. Qual è allora il punto di partenza di questo viaggio?

Ho un’immagine ben piantata in testa, uno dei primi ricordi d’infanzia: un televisore in bianco e nero, in cucina.

Era il luglio del 1976, dentro a quel televisore c’era Nadia Comăneci con i suoi “dieci” nel concorso di ginnastica dei Giochi Olimpici di Montrèal. Avevo sette anni e quell’immagine credo abbia avuto un impatto decisivo sulla mia vita. Se dovessi scegliere le due conseguenze più importanti, non avrei dubbi: da una parte uno sconfinato amore per lo sport, tutto, dall’altra parte la consapevolezza di quanto sia importante, bella e appagante la capacità saper fare bene un gesto.

Fare bene un gesto.

Con la stessa cura, affetto e pienezza di significato con cui nella tradizione orientale si codificano rituali millenari. La cerimonia del tè, un’arte marziale, il tiro con l’arco o la calligrafia. Non c’è differenza.

La cultura orientale tende a quella pienezza che si raggiunge grazie alla capacità di padroneggiare un gesto, di godere della sua bellezza, per sé e per gli altri.

Un modo di creare meraviglia. 

Ernest Hemingway definiva tutto questo “Grace under pressure” : conservare la grazie quando sei sotto pressione, preservare l’eleganza, la misura, la giustezza di un gesto nei momenti critici.

La cosa che conta di più è riuscire, sia nella vittoria che nella sconfitta, a fare bene un gesto, non importa quale. Trovarlo, tra mille possibili. Innamorarsene, prendersene cura.

Sottoporlo a un certo tipo di manutenzione quotidiana, consapevoli che nella realtà (come nello sport) si perde molto più di quanto si vince.

Il mio gesto, quello che ho rincorso per quasi trent’anni , è un gesto che si può esercitare, nella sua purezza e più alto significato, in una squadra sportiva, in un’aula scolastica, in un ufficio, in un consiglio d’amministrazione, in un ospedale, in una famiglia, in un teatro o un auditorium, in un’organizzazione pubblica o privata.

Un gesto affascinante, che regala a chi lo esercita, il privilegio di aiutare le persone a realizzare il proprio potenziale e a trasformarlo in prestazione, tendendo verso l’eccellenza. Tendendo verso il proprio capolavoro.

Il gesto dell’allenare.

La miglior lezione dalla peggior squadra

Nel 2008 allenavo la squadra di pallavolo Montichiari, storico club del campionato di serie A1. Lì vicino, a Castiglion delle Stiviere, sorgeva un Opg, agghiacciante acronimo che sta per Ospedale psichiatrico giudiziario. Chiusi definitivamente nel 2015, gli Opg altro non erano che i vecchi manicomi criminali. Un giorno venni avvicinato da alcuni dei responsabili della struttura. Mi chiedevano se volessi dedicare un po’ del mio tempo libero per tentare un esperimento con alcuni dei loro ospiti, uomini di età e condizione psicofisica molto diversa, tutti con storie tragiche alle spalle. La prima cosa che chiesi fu quella di poter visitare il luogo dove erano rinchiusi. Mi ci portarono, una mattina di cui ricordo ancora perfettamente ogni dettaglio, ma più di tutto il buio. Urla, rumori, sguardi non raccontabili, ma soprattutto il buio. Fu un’esperienza pazzesca che mi fece venire un’idea: quella di proporre la pallavolo come, diciamo, terapia. C’entravano l’idea del passaggio, la costruzione di una squadra, c’entrava (moltissimo) l’essere uno sport dove è impossibile il contatto fisico.
Insomma, mi sembrava potesse funzionare. Con un ma. Il mio ma, era legato al luogo dove ci saremmo allenati. «La faccio – dissi – ma dovrete convincere il Giudice a fare in modo che questa attività si svolga nel Palasport di Montichiari». Un Palasport di serie A, bellissimo. Un Giudice particolarmente illuminato (la luce!) accordò quel permesso. Volevo creare intorno a quegli uomini delle condizioni di eccellenza e presi in prima persona l’impegno di far allestire il Palasport, ogni lunedì (giorno di riposo del mio club), come se ci fosse una partita di serie A. La rete, quella bella, i palloni ufficiali, le magliette di allenamento preparate negli spogliatoi, tutte le luci (la luce!) accese. Insomma tutto era perfetto, pulito, ordinato, luminoso. Ci allenammo per circa sei mesi pieni di emozioni che crescevano di allenamento in allenamento. Mai una defezione, mai una rinuncia. Al termine organizzammo una partita contro dei ragazzi di una scuola superiore di Montichiari che terminò, addirittura, con la vittoria di un set, dove uno dei miei “atleti” fece 7 punti consecutivi in servizio.
Che cosa era successo? Ero forse io stato particolarmente bravo a insegnare la tecnica pallavolistica a signori di mezza età, sovrappeso e sottoposti a trattamenti farmacologici pesantissimi? Assolutamente no. Io, in qualità di allenatore di una squadra di seria A, ero parte della coreografia. La differenza lo aveva fatto il luogo, la sua bellezza li aveva trasformati. Il risultato più clamoroso arrivò qualche settimana dopo. Un report indicava che le necessità di psicofarmaci di quelle persone, al termine del progetto, erano clamorosamente diminuite. Quella notizia mi fulminò, letteralmente. Dopo sei mesi di allenamenti assumevano una quantità di psicofarmaci vicina alla metà rispetto a quando avevano iniziato. Era un risultato oggettivo.
Non ho mai più guardato allo sport con gli occhi di prima, dopo quei mesi. Avevo imparato che la bellezza di ciò che ci circonda incide sul nostro comportamento. È quel principio che scatta quando entriamo in uno stadio, bello, pulito, funzionale e ci comportiamo da tifosi civili, mentre se per guardare una partita ci fanno entrare in una gabbia (sì, in Italia esistono ancora degli stadi con le gabbie per i tifosi ospiti) evidentemente c’è qualcuno che ci sta autorizzando a comportarci come animali. Ho imparato, grazie a quell’esperienza, l’oggettiva possibilità dello sport di creare bellezza e meraviglia.
La più straordinaria delle lezioni me l’ha insegnata la peggior squadra che io abbia mai allenato.

IL PARADOSSO DELL’ARCIERE

La freccia, quando vola, ha un comportamento aerodinamico sorprendentemente metaforico. Nulla a che fare con la lineare traiettoria di una pallottola o di una palla che ha uno spin che ne aumenta la velocità di rotazione, stabilizzando la fase di volo. Niente di tutto questo. La freccia, appena scoccata, inizia a dimenarsi come se fosse animata. La forza, applicata sulla sua parte posteriore (la cocca), fa letteralmente incurvare la freccia. La punta, appena effettuato il rilascio, si allontanerà dal bersaglio, andrà verso sinistra, ma ritornerà verso destra dopo pochi istanti, curvando ulteriormente e permettendo alla parte terminale, dove c’è l’impennatura, di aggirare la struttura dell’arco. Da lì in poi la freccia continuerà a puntare a sinistra, tornare a destra e così via, fino a quando si conficcherà sul bersaglio.
Si chiama paradosso dell’arciere, un nome bellissimo.
La freccia ci ricorda che al bersaglio ci si avvicina per scatti, momenti in cui apparentemente ci allontaniamo dall’obiettivo, altri in cui ci riallineiamo con ciò che desideriamo. Se non ci fosse la possibilità di andare fuori dalla traiettoria ideale, non ci sarebbero le condizioni per ritornarci, arrivando alla fine a colpire il centro del bersaglio.
Non è forse così in economia, nel mondo del business, dello sport, in politica o nel processo di crescita di un adolescente? Non è forse, il nostro, un adattamento continuo, un ricercare correzioni in una danza che ci fa allontanare, avvicinare, riallontanare, riavvicinare a quello che cerchiamo? La freccia ci insegna come un complicatissimo algoritmo che mette insieme tecnica, materiali, incidenza del vento e mille altri dettagli, determinerà il suo piantarsi (o meno) nel centro del bersaglio. Certo, si può risolvere l’errore lamentandosi per il troppo vento o per mille altri alibi, ma sarà solo il controllo di tanti particolari che porterà la freccia dove l’arciere voleva che andasse. Sarà il suo atteggiamento prima del tiro, sfruttando esperienza, sensibilità, conoscenza delle condizioni esterne a fare la differenza. Dopo aver scoccato, infatti, non potrà che guardare la sua freccia volare, per settanta metri. Il successo sarà conseguenza della sua capacità di controllare ciò che è controllabile e di allenare la capacità di reagire in maniera positiva a dei fattori che, invece, controllabili non sono. L’obiettivo sarà centrato se, in mezzo a tutte quelle variabili, l’arciere sarà riuscito a fare bene un gesto, proprio quando è difficile farlo.
Ecco il segreto: il fatto che non tutto sia controllabile è uno dei valori più grandi che ho imparato dallo sport. Ci sono situazioni che non possiamo decidere se si presenteranno oppure no, ma possiamo tuttavia decidere come noi ci comporteremo, qualora si presentassero.